Continenti scomparsi
Il reddito medio pro
capite di questo continente è ancora molto alto, anche se ci sono sempre più
persone in giro che vorrebbero sapere di preciso in quale sportello lo pagano.
Qualcosa però sta
davvero affondando, perchè un po’ di cose stanno andando sottosopra; i lupi
vengono messi di guardia all’ovile e la guerra alla povertà è diventata la
guerra ai poveri.
I numeri se la
passano meglio della gente; loro avranno un posto nei libri di storia
universale, noi qualche trafiletto nella cronaca nera locale.
La voce di chi
comanda non è più modulata per spiegare, ma per nascondere: chiamano sacrifici
l’elemosina che stiamo elargendo a chi
ha già tutto.
Quando ce li chiedono
dovrebbero avere almeno il coraggio di togliersi gli abiti di sartoria e
indossare le tonache degli antichi sacerdoti, perchè per sacrifici intendono
quelli umani; e visto che del nostro cuore non hanno mai saputo che farsene,
preferiscono colpirci al portafoglio, un metodo altrettanto infallibile quando
si vuole dissanguare qualcuno.
E’ la famosa
divisione internazionale del lavoro: pochi incassano i profitti, tutti gli
altri forniscono le vittime.
Recitiamo il ruolo di
pezzi di carne a meraviglia.
Da molto tempo
abbiamo accettato che le persone seguissero il destino degli oggetti: lanciati
sul mercato dei consumi, sempre nuovi e facili da usare.
Il sudore del nostro
lavoro trattato come una merce: da spremere e liquidare alla prima occasione
quando non serve più.
Come ogni buon
azionista di minoranza, siamo stati diligenti complici silenziosi.
Abbiamo esercitato un
solo diritto: quello di vedere, ascoltare e tacere, mentre le cose diventavano
il fine ultimo della creazione.
Tanta fatica per
staccare come dividendo un mucchio di cianfrusaglie.
Tra i nostri
splendidi sogni fatti di Paesi della Cuccagna e la spicciola pratica
quotidiana, lasciamo sempre troppa luce, varchi sconfinati in cui continiuamo a
perderci.
Così ci tocca
affondare; in un mare di paccottiglia.
2400 anni fa, mentre
l’antica Atene si avvitava in una crisi economica e sociale senza fine, il suo
filosofo più importante, Platone, prese a raccontare di un’isola perduta,
sprofondata negli abissi nel volgere di una notte.
La cupidigia segnò la
fine di quel continente; la ricerca della perfezione attraverso la ricchezza
non ha mai portato bene agli esseri umani, si raccomandava Platone; l’agio
assoluto è una noia che dovremmo imparare a lasciare agli dei.
I suoi
concittadini non ci prestarono molto
caso.
Si trattava del resto
di uno strano signore che per vivere inventava delle favolette; loro avevano
lavori importanti da portare avanti, roba da uomini seri: commerci, edificazione di nuovi palazzi, guerre.
Platone raccontò
invano, e nel giro di pochi anni la sua Atene seguì la sorte di quell’isola
scomparsa.
Atlantide, si
chiamava.
Ad ingoiare Atene
però non furono le onde di un oceano, ma un mare di fuoco e di miseria.
2400 anni dopo, guardando
cosa sta accadendo in quella stessa città, viene da pensare che il passato non
dica mai ‘addio’ ma ‘arrivederci’.
C’è una beffarda
uniformità nel destino degli uomini. Le nostre vite sembrano svolgersi secondo
cicli immutabili, come le maree.
I desideri non si
avverano mai e non appena incominciano a fare acqua, comprendiamo
all’improvviso che le gioie maggiori sono al di fuori della realtà.
Non appena li vediamo
affondare, ci consumiamo di nostalgia per il tempo in cui brulicavano dentro di noi.
La nostra esistenza
scorre in questo eterno naufragio di speranze e rimpianti.
Noi siamo già
sopravissuti a un continente scomparso.
Qualcuno lo ricorda?
Aveva un suono tutto
suo e un’ accordatura particolare in cui le cose accadevano diversamente.
Era un luogo in cui
non accendavamo mai niente: a tutto ci davamo la molla.
Da piccoli non ci si
limitava a giocare; laggiù, facevamo le meraviglie.
Eravamo bravissimi a
fare delle meraviglie, in quel continente.
Non eravamo tanto
ricchi ma non ci facevamo molto caso, visto che nessuno in casa ero così serio
da occuparsi di cose come il prodotto interno lordo o il reddito medio pro
capite.
C’era una dignità,
nella nostra ingavagnata imperfezione; forse perchè avere poco non era ancora
un crimine.
Popolavamo Atlantide.
Poi ci siamo dedicati
a cose più importanti, e non c’è bastata più.
Dall’abisso in cui è
scomparsa, sopravvive solo nell’eco delle nostre voci meticcie, nelle nostre
strane parole di adulti coniugati in italiano al presente ma che sono nati in
dialetto nel passato remoto.
Come le favolette di
Platone, pare abbiano qualcosa da dirci.
Di fronte alle
delusioni e alle difficoltà di questi anni, ci chiediamo come tutto questo
possa accadere proprio a noi, come abbiamo fatto a cascarci così.
Noi che ci davamo la
molla e facevamo meraviglie tutto il giorno, noi gliela avremmo fatta vedere a
tutti quanti come si fa a sgavagnarsela da Atlantide.
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